Una questione a dir poco spinosa quella riguardante il pagamento del TFS. Ora, addirittura, sul punto deve intervenire la Consulta.
Nel settore pubblico, a differenza del privato, il datore di lavoro non è direttamente responsabile del pagamento del trattamento di fine servizio (TFS). Per i dipendenti statali, l’indennità di buonuscita viene determinata dall’amministrazione di appartenenza e trasmessa all’INPS, che provvede al pagamento. Attenzione, però, agli errori in busta paga, che possono creare non pochi problemi con l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale.
Si tratta del caso di cui vi parleremo di qui a breve: l’articolo 30 del DPR 1032/1973 stabilisce che qualsiasi errore nel calcolo dell’indennità può essere corretto entro un anno dalla data di emanazione del provvedimento, un termine perentorio che, se non rispettato, impedisce all’INPS di recuperare eventuali somme corrisposte in eccesso. E, ora, deve addirittura intervenire la Consulta sul punto.
La Corte Costituzionale è chiamata a decidere sulla validità del termine di un anno concesso all’INPS per correggere le errate liquidazioni dell’indennità di buonuscita per i dipendenti civili e militari dello Stato. Questa questione è stata sollevata dalla Corte d’Appello di Roma con un’ordinanza emessa il 27 aprile 2021, che ha posto un quesito di legittimità costituzionale riguardo all’articolo 30 del decreto del Presidente della Repubblica n. 1032/1973, in potenziale conflitto con gli articoli 3 e 97 della Costituzione.
Il nodo centrale della questione risiede nella mancanza di coincidenza tra il soggetto che paga l’indennità (INPS) e il datore di lavoro (l’amministrazione pubblica). Spesso, errori nel calcolo dell’indennità derivano da ritardi o errori nella comunicazione dei dati da parte dell’amministrazione, non imputabili all’INPS. L’articolo 26 del DPR 1032/1973 prevede che modifiche ai dati retributivi possano essere effettuate entro 60 giorni dalla nuova comunicazione, ma questo si applica solo a cambiamenti derivanti da decisioni amministrative riguardanti il rapporto di lavoro, non agli errori di calcolo dell’INPS.
Secondo la Corte d’Appello di Roma, imporre un termine di decadenza all’INPS per rettificare errori dovuti a comunicazioni tardive da parte dell’amministrazione è irragionevole. Questo perché l’INPS si trova penalizzata per inadempienze che non può controllare. Di conseguenza, l’istituto potrebbe non essere in grado di recuperare somme pagate in eccesso a causa di errori amministrativi, contravvenendo ai principi di buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97) e di parità di trattamento (art. 3) previsti dalla Costituzione.
La Corte d’Appello di Roma ritiene che il regime attuale penalizzi ingiustamente l’INPS e ha quindi rimesso la questione alla Corte Costituzionale per una decisione finale sull’articolo 30 del DPR 1032/1973. La decisione della Consulta potrebbe portare a una revisione delle norme, garantendo maggiore equità e coerenza con i principi costituzionali.
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